Molti commentatori ritengono che il contratto di apprendistato diventerà – grazie all’azione combinata del Testo Unico del 2011 e della recente riforma del lavoro – il contratto principale di ingresso al lavoro per i giovani. Questa previsione si fonda sul grande interesse che le aziende e i lavoratori stanno mostrando verso l’apprendistato, ora che sono stati risolti i problemi normativi che accompagnavano il contratto (il conflitto con le Regioni, la complessità delle regole, il numero eccessivo di fonti, ecc.). Il grande interesse del mercato del lavoro rischia tuttavia di essere frenato – come spesso purtroppo accade nelle vicende normative del nostro Paese – di fronte a un cavillo che, al momento della sua approvazione, sembrava innocuo. Parliamo della regola, introdotta dalla legge Fornero, che consente di assumere apprendisti solo a quelle imprese che nei 36 mesi precedenti hanno confermato in servizio almeno il 30% degli apprendisti (la percentuale sale al 50% a partire dal 19 luglio del 2015); dalla base di computo vanno sottratti gli apprendisti licenziati per giusta causa, durante il periodo di prova e quelli che si sono dimessi. Chi non raggiunge la percentuale, può assumere solo una persona. La regola non costituisce una novità assolta nel nostro ordinamento, ma per come è stata scritta potrebbe creare grandi problemi applicativi. Il primo – e più rilevante – problema è che la legge non dice quale limite devono rispettare quelle imprese che, nei 36 mesi precedenti, non hanno assunto alcun apprendista, e quindi per definizione non ha una percentuale di trasformazione. Questa ipotesi, si badi bene, è quella più ricorrente nella prassi, perché in questi anni molte aziende si sono tenute alla larga da un contratto così difficile da utilizzare come l’apprendistato, e quindi oggi partono da zero. Queste imprese, in mancanza di una regola transitoria, non potranno assumere nessun apprendista, salvo una, e solo quando questa sarà confermata, potranno finalmente incrementare le assunzioni con tale forma contrattuale. La situazione è paradossale, in quanto il legislatore con una mano (si pensi alle dichiarazioni enfatiche contenute nell’art. 1 della legge n. 92/2012) invita le aziende a usare un contratto, e con l’altra impedisce di usarlo. La questione è strategica, e meriterebbe di essere risolta sul piano legislativo. Un secondo problema, altrettanto rilevante, riguarda la data di efficacia dell’obbligo di conferma degli apprendisti. La legge ha previsto l’entrata in vigore immediata della nuova percentuale (seppure nella misura ridotta del 30%). Questo significa che se oggi un’azienda vuole assumere un apprendista, lo può fare solo se ne ha confermati almeno il 30% di quelli assunti a partire dal 2 ottobre del 2009, quando ancora non esisteva alcun onere di stabilizzazione. Si tratta di una penalizzazione sostanzialmente retroattiva che, anche in questo caso, stride con le finalità “ufficiali” perseguite dalla riforma del lavoro. La circolare n. 18/2012 ha provato ad allentare il rigore della previsione, la reintepretazione delle norme di legge è sempre un’operazione dagli esiti incerti. Il problema delle percentuali di trasformazione deve, infine, fare i conti con le norme dei contratti collettivi che già regolano la materia. Anche su questo tema la circolare n. 18 ha lasciato perplessi molti giuslavoristi, affermando che tutte le regole collettive approvate prima della riforma devono ritenersi implicitamente abrogate dalla disciplina introdotta dalla riforma. Questa affermazione rischia di ingenerare in molti settori il dubbio su quale sia la percentuale di trasformazione, oltre ad essere poco rispettosa delle norme collettive (che invece, secondo il Testo Unico apprendistato, costituiscono la fonte generale e primaria della materia).